Poi tutte le nazioni degli uccelli sollevarono insieme
la rete enorme delle ombre di questa terra
in dialetti innumerevoli, in lingue cinguettanti,
cucendola e incrociandola. Sollevarono
le ombre dei lunghi pini lungo pendii senza sentieri,
le ombre di torri vitree lungo le strade al tramonto,
l’ombra di una pianta gracile su un davanzale cittadino –
la rete che come la notte s’innalzava silenziosa,
i gridi degli uccelli anch’essi silenziosi, finché
non ci fu più né imbrunire né stagione, clima o declino,
solo questo passaggio di luce spettrale
che neanche l’ombra più sottile osava recidere.
E gli uomini non poterono vedere, alzando lo sguardo,
ciò che le oche selvatiche trainavano, ciò che i falchi pescatori
si tiravano dietro in funi argentee e luccicanti
nella luce glaciale del sole; non poterono udire
i battaglioni degli storni lanciarsi gridi pacifici
mentre innalzavano la rete, coprendo questo mondo
come i rampicanti di un frutteto, o una madre che stende
una garza tremante sugli occhi tremanti
di un bambino che fluttua verso il sonno;
era la luce
che puoi vedere al tramonto sul fianco di un colle
nel giallo ottobre, e nessuno di quelli che udirono seppe
che mutamento aveva indotto nel gracchiare del corvo,
nello stridio del piviere, il gracchio che volteggia sulle braci
una così immensa, alta e silenziosa apprensione
per i campi e le città cui gli uccelli appartenevano,
sennonché era il loro passo stagionale, l’Amore,
reso privo di stagioni, o, dall’alto privilegio del loro lignaggio,
qualcosa di più luminoso della pietà per i senza ali
sotto di loro che condividevano buchi bui in finestre e
case,
e più in alto sollevarono la rete con voci silenziose
sopra ogni mutamento, tradimenti di soli che calano,
e questa stagione durò un istante, come la sospensione
tra l’imbrunire e la tenebra, tra la furia e la pace,
ma, per ciò che la nostra terra è ora, durò a lungo.
Dalla raccolta “Nelle vene del mare”